164 pagine | 15.00€ cartaceo
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Questo libro racconta la vita di Alberto Sed dalla nascita ai giorni nostri. Rimasto orfano di padre da bambino, Alberto è stato per anni in collegio. Le leggi razziali del 1938 gli hanno impedito di proseguire gli studi. Il 16 ottobre 1943 è sfuggito alla retata effettuata nel ghetto di Roma. È stato catturato in seguito, insieme alla madre e alle sorelle Angelica, Fatina ed Emma. Dopo il transito da Fossoli, la famiglia è giunta ad Auschwitz su un carro bestiame. Emma e la madre, giudicate inabili al lavoro nella selezione condotta all'arrivo, sono finite subito nella camera a gas. Angelica, un mese prima della fine della guerra, è stata sbranata dai cani per il divertimento delle SS. Solo Fatina è tornata, segnata da ferite profonde: ha assistito alla fine terribile di Angelica ed è stata sottoposta agli esperimento del dottor Mengele. Alberto è sopravvissuto a varie selezioni, alla fame, alle torture, all'inverno, alle marce della morte. Ha partecipato per un pezzo di pane ad incontri di pugilato fra i prigionieri organizzati la domenica per un pubblico di SS con le loro donne. Dopo essere scampato a un bombardamento, è stato liberato a Dora nell'aprile 1945. Tornato a Roma, superate le difficoltà di reinserimento, ha iniziato a lavorare nel commercio dei metalli e si è sposato. Ha tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti.
Sono pagine che straziano il cuore di chi le legge. A differenza di altri libri che ho avuto modo di affrontare negli anni, Alberto Sed non si sofferma sui dettagli specifici della sua prigionia o su quei forti particolari che spingerebbero in modo inevitabile verso sensazioni di rabbia e disgusto. Sono pochi gli episodi che Sed riporta, eppure sono brevi frasi che racchiudono tutto quel dolore impossibile anche solo da immaginare, tutte quelle umiliazioni subite durante le varie selezioni, tutte quelle contraddizioni di una razza imperfetta come è quella umana. Perché quegli uomini che sparavano a neonati lanciati in aria dagli stessi deportati o scommettevano sulla loro sopravvivenza giocando - a loro piacimento - con la vita e la morte erano stati figli, forse erano mariti, padri e fratelli.
Alberto Sed non parla mai di odio o di vendetta. Le sue parole hanno l'eco della speranza e ci fanno conoscere uomini come Tasca e Serini che - in modi ed occasioni diverse - hanno permesso ad un ragazzino di appena quindici anni di sopravvivere all'inferno di Auschwitz, prima, e alla marcia della morte, poi. Quel luogo dove Sed non è mai voluto tornare perché la sua rivincita più grande è stata la sua famiglia, i suoi figli e i suoi nipoti. L'eredità di un ragazzino che doveva morire, il futuro di un popolo che doveva essere sterminato. E quale sarà la nostra memoria quando questi uomini e donne non ci saranno più? Questa è la mia paura più grande. Perché il razzismo è sempre esistito. Come un seme se ne sta per anni silente in attesa del momento giusto per tornare in superficie e spargere un odio imperante che non ha ragione di esistere, che vive della più bieca contraddizione, che si nutre di quel populismo che ci sta rendendo sempre più ciechi, privi di coscienza, assenti di giudizio.
Grazie ad un tatuaggio sul braccio, credevano che in un lampo la sua identità sarebbe stata cancellata:
con il nome il suo passato, gli affetti, la coscienza e la dignità.
L'esistenza di Alberto dimostra quanto quel pensiero fosse sbagliato.
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